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Barboso film festival

Solo per rispetto degli stagisti che vengono sfruttati per lavorare nei festival non farò il nome della manifestazione in questione, ma da assidua frequentatrice di festival, una talebana della sala buia in pratica, non posso sorvolare su alcuni brutti vizi che, ahimè, colpiscono ancora molte di queste manifestazioni cinematografiche.

Si tratta dell’oscurantismo snob, finto radicale dello specifico filmico che non fa altro che allontanare sempre più lo spettatore dalla sala anzichè avvicinarlo, scopo a cui comunque la maggior parte di queste manifestazioni, soprattutto se minori (non parliamo certo della Mostra di Venezia o Cannes, che del pubblico non hanno bisogno) dovrebbero aspirare.

Se per caso sei un festival che sceglie in partenza un genere di nicchia, il documentario (per non fare nomi e cognomi), e hai pure la fortuna che la sala non è deserta, ma anzi la gente ha preferito venire a vedere film invece che andare in spiaggia, non puoi, non devi, è immorale che vinca un’opera per cui non ci sono stati superstiti all’abbiocco.

Non è possibile scegliere come vincitore un film per cui il 90% della gente in sala dormiva, anche fosse stata davvero un capolavoro di linguaggio cinematografico (e comunque non lo era ve lo assicuro) perchè vuol dire che ancora una volta non hai colto il senso di quello che fai o che l’organizzazione del festival non ha saputo spiegare alla giuria il senso del suo lavoro.

Inoltre, non ci fai una bella figura a fare confusione di generi, per esempio (ma solo per esempio) se si tratta di documentari premiare la videoarte, oppure se hai scelto un tema filo conduttore del festival, come la musica, non omaggiare con una menzione, una citazione o una pizza chi di tale argomento si è occupato.

Per onestà intellettuale devo dichiarare che questo articolo è di parte, ma per la stessa vi assicuro che il giudizio è lucido e sarebbe stato lo stesso anche scevro da implicazioni personali. E a onor del vero, per fortuna, non in tutte le sezioni di concorso sono stati commessi gli stessi errori e quindi concludo consigliandovi un bel documentario come SmoKings.

 

 

 

 

 

 

 

 


Fargo: la realtà, il bene e il male (attenzione contiene tantissimi spoiler)

Che le serie tv ormai abbiano raggiunto altissimi livelli di qualità è ormai assodato, serie tv americane (in Italia ancora troppo poco per parlarne) che hanno lo stesso potere coinvolgente del cinema, che ci toccano nel profondo e che cambiano il nostro modo di guardare alla realtà.

Le serie che affrontano il tema del male, il male in ognuno di noi soprattutto, sono quelle che hanno la maggiore capacità empatiche, che ti spingono a sentire fortemente il personaggio, a com-patire con lui, a sentirne addirittura la mancanza, così Breaking Bad e House of Cards sopra ogni cosa.
Fargo si distacca in parte da questo perchè l’introspezione nei personaggi è ridotta. Ogni puntata inizia ricordandoci che i fatti sono veri, realmenti accaduti (pochissimo importa che sia vero o meno, pare in realtà che i Coen si siano solo ispirati a dei fatti reali) ma paradossalmente la realtà in balia dal caso, di un fato potente e della follia umana lontana da noi non fa scattare il meccanismo dell’identificazione.
Ne sono consapevoli i creatori della serie, che fanno morire uno dei personaggi interrogandosi amleticamente o, più cinematograficamente alla Lynch, se sia sogno (leggi incubo) o realtà ciò che sta vivendo.

Da The Great Train Robbery in poi sappiamo che il male al cinema è più affascinate del bene e così non da meno nelle serie tv vediamo il male dominare e spesso vincere, senza falsi moralismi. Così noi in Breaking Bad arriviamo a pensare che non sia poi così spregievole produrre meth e ammazzare chiunque e in House of Cards siamo praticamente complici del nostro amico Frank.
In Fargo no, i buoni e i cattivi ci sono, si distinguono chiaramente, uccidono e lo fanno senza motivo o per lavoro e non c’è empatia per loro, non abbiamo dubbi, così fino alla fine quando ciò che prima era normale ora diventa spiazzante: l’happy end, se così possiamo chiamarlo, della prima serie.

Il bene vince e il male perde, per il coraggio e la perseveranza dei buoni e per il fato, ancora una volta, ma vince… e questo d’improvviso ci spiazza, perchè non siamo più abituati che nelle serie tv e ancora di più nelle realtà, in fatti realmente accaduti come ci ricordano a ogni inizio puntata, il bene possa ancora vicere, che i cattivi siano puniti e che noi potremmo sopravvivere.

Grazie Fargo.


Rapiti al Torino Film Festival

Era la mia prima volta al Torino Film Festival e la cosa che più mi ha colpito è la tante gente che ne riempe le sale. Splendore per gli occhi in un paese dove i cinema chiudono e sembra che la gente voglia vedere solo Zalone.
Le sale erano piene, dalla proiezione della mattina fino all’ultima la sera, ed erano piene di torinesi, di studenti e di addetti al settore: il pubblico ideale per qualsiasi festival.
Altri festival raccolgono un numero incredbile di pubblico, Venezia è un circo e tutti i festival più importanti hanno la ressa al tappeto rosso, ma quando vai alla retrospettiva alle 8 di mattina sul cinema bulgaro in sala trovi solo 8 persone che dormono. Invece al TFF la gente va a vedere qualsiasi cosa, vuol dire che il pubblico si fida e questo è il nirvana per qualsiasi festival.

L’altra faccia della medaglia è la gestione di questa massa di persone. Per gente malata come me, che ha pochi giorni e vuole saziarsi al massimo della sua droga chiamata cinema, i ritmi del TFF sono serattissimi: non hai tempo nemmeno per mangiare e certe volte anche andare in bagno può essere un problema.

Ci sono proiezioni a ciclo continuo e siccome c’è sempre gente bisogna arrivare sempre in anticipo e non perdere l’apertura della sala per non ritrovarsi seduti dietro la colonna. Ciò vuol dire che pagherai il tuo amore per il cinema morendo di stenti o per esplosione della vescica, ma se nonostante questo sei felice vuol dire o che sei completamente fuori (non mi sento di escluderlo) o che il TFF ha un livello molto alto, dal punto di vista artistico e professionale.

Per concludere vi consiglio i film della mia personalissima e parziale selezione: Pelo Malo di Mariana Rondón (Venezuela)  e La Battaglia di Solferino di Justine Triet (Framcia); se vi piacciono i documentari Wolf di Claudio Giovannesi (Italia/Repubblica Ceca) e Portrait of a Lone Farmer di Jide Tom Akinleminu (Danimarca/Nigeria/Germania).


Checco Zalone?!

Mi sembra che si stia esagerando! Sono giorni che non si sente altro che il film Sole a catinelle di Checco Zalone fa bene al cinema, che c’è una svolta, che intellettuali di ogni parte lo rivalutano.
Diamoci una calmata: il film di Checco Zalone fa bene a Checco Zalone e all’industria cinematografica italiana solo per i soldi. Ben vengano i soldi, ma non basta.
Sarà un bravo comico ma questo non ha nulla a che fare con l’arte cinematografica: un buon film non si può basare esclusivamente su battute divertenti, è fatto di molto altro.

Non è snobbismo, ma precisazioni. Se il pubblico cerca sul grande schermo la riproduzione della comicità televisiva, per quanto sia divertente, il nostro cinema continua a soffrire. Non si crea un pubblico cinematografico, ma sempre e solo il solito pubblico televisivo che non conosce e non capisce nuovi linguaggi.
In questi film manca la sceneggiatura e molti altri elementi fondamentali dell’arte cinematografica.
Si è detto che Zalone ha portato al cinema anche gli intellettuali, ma è solo per colpa del primo che ha detto la fesseria di andarlo a vedere: gli altri, carichi di aspettative, ci sono andati e sono rimasti delusi.
Non c’è nulla di male a farsi 4 risate e di sicuro è meglio di un cinepattone (pochissimo ci vuole). Andate a vederlo se volete, nessuno vi giudica male per questo, ma non facciamoci prendere da facili entusiasmi.
Se siete tentati dal farlo, intellettuali e non, snob o faciloni, pubblico di qualsiasi genere, riguardartevi un film di Monicelli… e poi ne riparliamo.


Tale e quale a te da giovane

Non è difficile capire ed essere stupiti del successo di un programma come Tale e quale Show, programma di punta della Rai.
Un risultato meritato dalla sapiente unione di effetto nostalgia, cantanti allo sbaraglio che in realtà sono professionisti dello show business, aspetto metatelevisivo e un pizzico di trash smorzato dall’autoironia, che troppo spesso manca nella tv generalista.

Durante la trasmissione viene spesso e giustamente sottolineato il grande lavoro dei truccatori, che ci viene mostrato nei video che raccontano la settimana di preparazione dei concorrenti; ma quello che non viene esplicitato, ma non può sfuggire, è un terzo stadio della trasformazione: quella dei vip nel loro stesso “pubblico”, giovane e come siamo abituati a vederlo in tv e sulle riviste.

L’esempio perfetto è Riccardo Fogli la cui età da rvm delle prove sembra si aggiri sui circa 60 mila anni, poi assistiamo alla sua versione restaurata nei panni di Riccardo Fogli in cui sembra un bell’uomo sui 60 anni che parla col presentatore e infine la sua trasformazione in cantante altro durante l’esibizione.

Ancora peggio quando questa fase intermedia nulla può contro gli scempi del botulino: non si è mai capito come attrici e cantanti possano pensare che diventare dei mostri possa essere meglio che invecchiare.

Tutto questo lavoro intermedio non può e non deve restare sommerso, regalo per questo alla Rai un nuovo format di sicuro successo: Vip tali e quali a quello che vorrebbero essere.


Barbara ti odio

I motivi che ho per odiare Barbara D’Urso sono così tanti che non so da che parte cominciare.
La mia unica fortuna è che non faccio zapping in settimana, ma se per caso mi imbatto in una puntata la domenica tutto il mio odio risale come acqua in ebollizione.

La odio perchè è falsa, per le sue faccette e perchè tanta gente la guarda.
La odio soprattutto perchè tanta gente la guarda e quindi diffonde e promuove certo superficiale pensare comune, idiozie ipocrite e falsità ignoranti.

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James Fra’ c’hai rotto il ca’… ovvero il Festival di Venezia

Andare al Festival di Venezia o a qualsiasi altro festival per un appassionato di cinema è estasi pura: film ad ogni ora e attori e registi che incontri solitamente mentre vai in bagno. E non lo dico per esagerare, ho incontrato in bagno: Kim Ki Duk e tutti gli attori del suo film, l’attore protagonista di un film greco e, in uscita dal bagno, Dakota Fanning.

Questo nirvana cinefilo però si compensa con difetti non da poco: Continua a leggere


Festival di Venezia, le minirecensioni

Nell’era delle brevità, anche le recensioni devono essere mini.

Ecco tutti i film che ho visto al Festival di Venezia e la mia opinione. Non so nemmeno se e con che titolo usciranno in Italia.

Mancano anche i più famosi, ma è tutto quello che ho potuto vedere in 4 giorni. Non tutti possono permettersi 11 giorni di festival!

Con il fiato sospeso di Costanza Quatriglio: documentario ricostruzione. No, poco credibile.

Redemption di Miguel Gomes: mockumentary. Sì.

We are the best di Lukas Moodysson: su un gruppo di ragazze che scoprono la ribellione. Commedia carina che secondo me non ha target in Italia e mi dispiace.

Las ninas Quispe di Sebastian Sepulveda: è una storia vera. Formalmente bellissimo.

Class Enemy di Rok Bicek: non si esce mai dalla scuola, NI.

Julia di Jackie Baier: documentario su un trans, vero fino alla nausea.

Non eravamo solo ladri di biciclette di Gianni Bozzacchi: doc sul Neorealismo, rifugge dai luoghi comuni. Ci manca tanto il Neorealismo. Continua a leggere